Le ultime stragi commesse da Israele sembrano avere convinto alcuni governi, che continuano a intrattenere normali rapporti commerciali con lo stato ebraico, a ripensare le proprie politiche e a fare almeno qualche timido passo a favore della causa palestinese. Il governo turco, in particolare, ha deciso finalmente nella giornata di martedì di congelare le esportazioni di una serie di beni verso Israele, facendo registrare il primo provvedimento concreto in risposta al genocidio in atto. Erdogan ha usato in questi mesi toni molto duri nei confronti di Netanyahu, ma a convincerlo ad agire per infliggere un qualche costo al governo di quest’ultimo e all’economia israeliana è stata alla fine la pesante sconfitta della settimana scorsa nelle elezioni amministrative turche.

Il ballottaggio delle elezioni presidenziali in Slovacchia ha registrato un netto ribaltamento dei risultati del primo turno di un paio di settimane fa, con il successo, peraltro non troppo a sorpresa, del candidato appoggiato dal governo in carica, l’ex primo ministro Peter Pellegrini. Il 48enne politico di origini italiane è rimasto fermo sulle posizioni anti-belliche della prima parte della sua campagna elettorale ed è riuscito a capitalizzare, come già aveva fatto nelle elezioni legislative dello scorso ottobre l’attuale premier Robert Fico, la crescente ostilità popolare nei confronti dell’UE e dell’appoggio incondizionato al regime di Zelensky nella guerra in corso contro la Russia.

Da Bruxelles e Washington si sperava e ci si era adoperati attivamente per favorire il successo dell’altro candidato qualificatosi per il ballottaggio, l’ex ministro degli Esteri ed ex ambasciatore slovacco negli USA, Ivan Korčok, esponente dell’opposizione europeista e russofoba. A risultare decisivo, in termini numerici, è stato lo spostamento della maggioranza dei voti ottenuti dai candidati di destra eliminati al primo turno, essi stessi espressione in larga misura delle frustrazioni diffuse per le politiche “mainstream” europee.

La NATO ha compiuto 75 anni di esistenza. Tutti passati in guerra, mission esistenziale di un organismo che si disse nascesse per contrastare l’espansionismo sovietico che minacciava l’Occidente. Ma era tesi hollywoodiana: la NATO nacque il 4 Aprile 1949 e solo il 15 Maggio del 1955, sei anni dopo, nacque il Patto di Varsavia. E la natura offensiva  del Patto Atlantico è stata confermata lungo tutti i suoi 75 anni nei quali ha invaso Paesi e generato guerre ai 4 angoli del Pianeta.

I festeggiamenti di un organismo concepito per portare la guerra ovunque non potevano che essere celebrati con una nuova base militare, buona per ulteriori guerre. Più grande di quella di Ramstein, in Germania, la struttura sarà realizzata vicino a Costanza, la città della Romania sud-orientale sulle rive del Mar Nero. Sorgerà nei pressi dell'attuale base militare “Mihail Kogalniceanu”, che verrà ampliata a circa 2.800 ettari. Sarà pronta per il 2040 e ospiterà 10.000 militari. Vista l’inoperatività delle basi in Ucraina, sarà questa la struttura militare NATO più vicina al confine russo.

Si trova in Europa, cioè il teatro scelto da Washington per i prossimi conflitti ad alta intensità, quelli cioè che nascono in forma convenzionale ma non escludono il ricorso alla dimensione nucleare tattica. D’altra parte gli USA hanno sì bisogno della guerra permanente per poter sopravvivere politicamente ed economicamente, ma la vogliono lontano da casa loro.

I dettagli emersi in questi giorni del bombardamento israeliano di un convoglio umanitario internazionale nella striscia di Gaza hanno confermato che si è trattato di un’operazione deliberata e non di un tragico “errore”, come sostenuto dal governo del primo ministro Netanyahu. Le conclusioni non sono una sorpresa, dal momento che lo stato ebraico agisce regolarmente in violazione di ogni norma del diritto internazionale, se non come una vera e propria entità terroristica. Quello però che la strage di operatori umanitari potrebbe innescare è un ulteriore aumento dell’opposizione contro Israele anche in Occidente, dove, in un altro ambito, si comincia a temere di possibili ripercussioni legali per via della complicità nel genocidio palestinese.

La sconfitta senza precedenti incassata da Erdogan nel fine settimana è lo specchio della crisi politica ed economica che sta attraversando la Turchia e il suo governo in un contesto regionale e internazionale sempre più instabile. Nel voto amministrativo di domenica, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del presidente è finito dietro all’opposizione kemalista del Partito Popolare Repubblicano (CHP) per la prima volta in termini di consensi su base nazionale. Il sostegno di fatto al genocidio israeliano, nonostante le feroci critiche di facciata rivolte a Netanyahu, e l’impennata dell’inflazione e dei tassi interesse, seguita all’imposizione di politiche economiche “ortodosse” dopo le elezioni presidenziali e legislative dello scorso anno, si sono tradotte in un sensibile aumento dell’astensionismo e nell’abbandono dell’AKP di ampie fasce dell’elettorato, talvolta anche nelle tradizionali roccaforti del partito.


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