I motivi di interesse delle elezioni primarie americane di questa settimana nello stato del Michigan vanno ricercati tra le righe di risultati in larga misura scontati sia per il Partito Repubblicano sia per quello Democratico. Per il presidente Biden, in particolare, il sostegno relativamente ampio ottenuto da una blanda operazione di disturbo della sua campagna elettorale, da collegare al ruolo degli Stati Uniti nel genocidio palestinese in corso a Gaza, rappresenta un ulteriore segnale di pericolo in vista delle presidenziali di novembre. Il Michigan, come sempre, sarà uno degli stati decisivi nella corsa alla Casa Bianca e l’equilibrio che si prospetta tra i due probabili candidati potrebbe rendere fondamentale l’appoggio o meno della consistente minoranza di arabi e musulmani americani che ospita.

Una classe politica anche solo minimamente razionale, davanti alla tragedia consumata in Ucraina in questi due anni e alle conseguenze economiche disastrose provocate dalle (auto-)sanzioni nominalmente dirette contro la Russia, trarrebbe le logiche conclusioni di scelte sciagurate per cercare di trovare una soluzione diplomatica alla guerra in corso nel paese dell’ex Unione Sovietica. I governi europei, al contrario, continuano a rilanciare le fallimentari politiche ultra-aggressive che hanno provocato il disastro, col rischio di scatenare uno scontro diretto con Mosca. Questa pericolosa farsa ha avuto l’ennesima replica nel vertice UE organizzato lunedì a Parigi, al termine del quale il padrone di casa, il presidente francese Macron, ha addirittura prospettato nel prossimo futuro il possibile dispiegamento di forze di terra occidentali in Ucraina.

Le due tesi fondamentali su cui si è basata e in larga misura continua a basarsi la campagna di propaganda occidentale contro la Russia sono la natura “non provocata” dell’intervento militare lanciato quasi esattamente due anni fa e il semplice appoggio esterno dei paesi NATO al regime di Zelensky, ufficialmente contrari a una partecipazione diretta alle operazioni belliche contro Mosca. Un lungo articolo del New York Times, pubblicato nel fine settimana, ha smentito però entrambe le versioni, confermando sia la strettissima collaborazione tra gli Stati Uniti e, in particolare, la CIA e le forze ucraine sia la valanga di provocazioni orchestrate da Washington e Kiev almeno a partire dal colpo di stato neo-nazista del febbraio 2014.

La sceneggiata del G7 che si riunisce a Kiev, riporta alla mente identiche gite fuori porta come quelle di Draghi, Macron e Sholtz di quasi due anni fa. Gli ingredienti della manfrina sono sempre gli stessi: quintali di retorica bellica e immagini trite e ritrite di governanti europei che, con poche ore di treno (la Meloni ha ritenuto di lasciare a Roma Lollobrigida per evitare guai ndr) ritengono di poter rilanciare la loro immagine di fermi guerrieri dell’Occidente a spese degli ucraini, che intanto continuano a morire per le ambizioni di Zelensky e per gli interessi statunitensi.

Non ci vogliono stare. La propaganda atlantista rilancia, imperterrita e sbruffona, traendo alimento dalla triste e oscura fine di Alexei Navalny. Eppure la situazione sul campo è molto chiara ed indica che, come prevedibile, la Russia sta prevalendo. Putin del resto ha più volte espresso la sua disponibilità a negoziare una pace onorevole per entrambe le parti. Base concreta del negoziato è l’accordo raggiunto a Istanbul poco tempo dopo l’invasione, che lo stesso Putin cita più volte nella nota intervista al giornalista statunitense Tucker Carlsson. Gli ingredienti sono quelli noti da tempo: autonomia del Donbass, Crimea alla Russia (eventualmente verificando in entrambi i casi la volontà popolare) , divieto di propaganda nazista e neutralità per l’Ucraina. Un accordo mutuamente soddisfacente che si sarebbe potuto raggiungere agevolmente due anni e circa duecentomila morti fa.


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